di Sergio Vazzoler Con l’affermarsi della sostenibilità come tema centrale per le imprese oltre che per le istituzioni, la comunicazione ambientale è diventata più diffusa e più complessa. A ciò si aggiunge la tendenza per cui il tono dei dibattiti sulla responsabilità d’impresa, sulla gestione delle emergenze ambientali e sulla negligenza aziendale, spesso si scalda parecchio, soprattutto quando ONG, movimenti ambientalisti e comitati civici esprimono critiche sugli sforzi delle aziende e sulle loro eventuali responsabilità. Una tendenza che spesso coinvolge anche le istituzioni, gli enti terzi e le autorità di controllo. In questo contesto, il ruolo di chi è chiamato a comunicare i temi ambientali assume un’importanza crescente: non solo gli operatori dell’informazione ma anche i comunicatori pubblici, delle imprese e del terzo settore. Da qui le ragioni della nascita di FIMA, la Federazione Italiana dei Media Ambientali, e da qui, oggi, un ulteriore passo: la Carta dell’Informazione Ambientale. Il mio personale contributo a questo lavoro collettivo si concentra su due singoli aspetti che penso abbiano un crescente impatto sulla qualità dell’informazione ambientale. L’ambiente: complessità, divulgazione e narrazione L’informazione ambientale sconta tutt’oggi un problema irrisolto: la complessità. La comunicazione sugli effetti provocati dai cambiamenti climatici ne rappresenta l’emblema. Da circa 25 anni, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) pubblica rapporti periodici per mettere in guardia il mondo dai pericoli in tal senso. Le conoscenze scientifiche accumulate in tutti questi anni hanno una portata enorme e il lavoro di raccolta, analisi e sintesi è davvero mastodontico. Eppure, l’impatto dei rapporti IPCC continua a essere assai limitato. Nonostante tutti gli sforzi per contestare i ragionamenti degli scettici e sfatare i luoghi comuni, l’opinione pubblica non ha fatto progressi rispetto a quando l’IPCC iniziò la sua attività. Un recente rapporto pubblicato da Climate Outreach & Information Network osserva, ad esempio, come l’IPCC riesca a raggiungere il proprio obiettivo di mettere al corrente i decisori del cambiamento climatico, senza però riuscire a fare da catalizzatore per ottenere una risposta politica e pubblica adeguata. E ciò, secondo il think tank di Oxford, continuerà fino a quando non si evolverà il rapporto della scienza con la società e fin tanto che i documenti prodotti dall’IPCC non saranno accompagnati da narrazioni forti che rendano viva la scienza e che partano dal punto di vista dei suoi pubblici: che cosa deve sapere il settore delle costruzioni per creare infrastrutture low-carbon? Che impatto potrà avere il clima che cambia sui programmi della sanità pubblica per gli anziani? E così via. Ma se il climate change è l’emblema, non è che gli altri temi ambientali se la passino tanto meglio dal punto di vista dell’efficacia divulgativa. Nonostante alcune eccezioni di valore, ancora troppo marcata è la connotazione tecnica di chi racconta il funzionamento delle energie rinnovabili, i sistemi di raccolta e gestione dei rifiuti, i percorsi di bonifica ambientale e persino i vantaggi di vivere in una cittàintelligente. Persino negli speciali dei grandi giornali che precedono eventi di punta del settore, come in questi giorni per Ecomondo, si assiste a una “caduta di impatto” rispetto alle pagine precedenti e successive degli stessi quotidiani: eccessivo utilizzo di acronimi, abbondante ricorso a inglesismi (dalle smart grid all’e-procurement passando per il waste to energy, il recycling e il decommissioning), rassicurante rifugio nel linguaggio per addetti ai lavori ed eccessivo spazio ai pubbliredazionali da parte delle aziende, in cui tecnologia e ingegneria prevalgono su divulgazione, semplificazione e modalità di ingaggio con i lettori. Eppure le storie sono i mezzi con i quali impariamo sin da piccoli a “leggere” i fatti intorno a noi, impariamo valori e costruiamo le nostre idee. Le storie le troviamo un po’ dappertutto ma spesso non le troviamo nella comunicazione ambientale. FIMA, tramite la Carta dell’Informazione Ambientale, può e deve provare a includere nella cassetta degli attrezzi formativi anche la semplificazione del linguaggio tecnico-scientifico e la ricerca di “cornici” di significato condiviso in cui incasellare i temi e le sfide ambientali.   Media e informazione aziendale: evoluzione di un rapporto complesso. Il rapporto tra le testate giornalistiche e gli uffici stampa delle aziende è sempre stato complesso e assomigliava a una sorta di tiro alla fune. Poi nell’ultimo decennio l’imporsi della comunicazione digitale con la conseguente creazione di una nuova sfera pubblica che si informa, dibatte e si attiva in un ambiente fortemente disintermediato, ha completamente cambiato lo scenario, impattando tanto sul giornalismo quanto sulla comunicazione aziendale. E così, complice anche la crisi dell’editoria, torna alla ribalta un fenomeno che è sempre esistito ma che oggi assume un peso più rilevante: il brand journalism, ossia l’informazione prodotta dalle aziende. Sono proprio i social network e gli altri strumenti di comunicazione digitale che permettono a queste notizie di raggiungere un pubblico sempre più vasto. Ma non solo. Da un lato le imprese si organizzano con vere e proprie redazioni (o con l’ausilio delle agenzie di RP) in grado di sfornare articoli, video, infografiche, utilizzando i propri canali di comunicazione per la loro diffusione. Dall’altro lato le testate giornalistiche, specialmente quelle online e specialmente a livello locale, hanno bisogno di questo tipo di contenuti multimediali per creare “traffico” e interazione. Dunque, siamo di fronte a un nuovo perfetto meccanismo di vasi comunicanti? Non proprio, nel senso che il confine tra scambio virtuoso e nuove forme di controllo, indirizzo e “conquista” degli spazi giornalistici si assottiglia pericolosamente. E se diversi operatori dell’informazione e testate offrono alle aziende le proprie competenze per aiutare i marchi a trasformare progetti in storie, altri media, per necessità di distinzione o reazione, sono portati a intraprendere vere e proprie battaglie pregiudiziali contro le informazioni provenienti dalle aziende. Ma così facendo, in termini generali ma a maggior ragione su temi scottanti come l’ambiente, l’inquinamento e la salute, si rischia un cortocircuito dove una libera, corretta e preziosa divulgazione di questioni complesse (quanto mai preziosa e necessaria) viene sostituita con una sfida tra opposte fazioni. E, alla fine, a farne le spese è solamente il lettore che invece di diventare più consapevole, rischia di schierarsi come allo stadio. Pur non potendo intervenire su logiche e tendenze di mercato, FIMA e la Carta dell’Informazione Ambientale possono e devono giocare un ruolo importante nel fare cultura circa l’interesse generale a cui l’informazione ambientale mira e nel raccontare e valorizzare le buone pratiche di una corretta comunicazione ambientale.]]>