CONTRO IL TERRORISMO DEL GREENWASHING

26 Apr, 2021 | Analisi e commenti

I media si appassionano al tema del “populismo ecologico”. Sergio Vazzoler, partner Amapola ed esperto di comunicazione ambientale, mette in guarda dal rischio di confondere opportunismo e scarsa dimestichezza con la sostenibilità.

Il titolo di questo intervento vuole essere naturalmente una provocazione: che si parli sempre di più di greenwashing e se ne denuncino le pratiche è cosa buona e giusta. L’obiezione che mi sento di muovere al sistema dell’informazione e al metodo – se così si può chiamare… – con cui si approccia a questa tematica, è la progressiva banalizzazione e semplificazione della cultura della sostenibilità. Mi spiego meglio: il problema di molti media è dare spazio alle riflessioni sul “populismo ecologico” senza andare veramente a sviscerare il problema e uniformando, per intenti e mezzi, tutte le imprese che praticano greenwashing. La realtà, però, è ben diversa. Accanto a chi, con artificio, dolo quasi, si vuole presentare per ciò che non è, c’è tutto un tessuto di aziende che peccano non tanto per intenzione premeditata ma per mancanza di strumenti culturali e consapevolezza nel campo della sostenibilità. Ed è qui che i comunicatori della sostenibilità devono concentrare la loro azione.

Il greenwashing: da oceano a pozzanghera

È sempre più comune trovare fra le pagine (digitali e non) dei giornali interviste, riflessioni, approfondimenti dedicati al tema del greenwashing. Il messaggio è semplice e chiaro. Non basta dichiarare di essere sostenibili: è necessario dimostrarlo e darne conto. E su questo non c’è nulla da dire: la sostenibilità non può limitarsi a una pennellata di verde.

Il greenwashing come argomento mediatico è tornato in auge recentemente, dopo aver vissuto qualche anno fa un altro momento di grande popolarità. Lo scenario oggi è, ça va sans dire, nettamente cambiato. Stiamo vivendo una fase più matura per quanto riguarda la sostenibilità, diventata un tema “caldo” che aziende, istituzioni, organizzazioni sono chiamate ad affrontare. Pena rimanere indietro, non essere aggiornati, perdere in competitività e reputazione. Ed è proprio in questo contesto che il rischio di greenwashing si fa più pervasivo ed evidente: nessuno vuole essere escluso da questo campionato e, pur di parteciparvi, fa carte false.

Per quanto l’attenzione alle pratiche di greenwashing sia più che giusta e necessaria, il modo in cui spesso – molto spesso – si comunica l’argomento mi lascia perplesso. Da una parte, il sistema informativo dà spazio a ogni tipo di iniziativa di responsabilità sociale o ambientale senza verificare che abbia un reale valore di sostenibilità. Dall’altra, attraverso la voce di esperti, imprenditori, comunicatori, grida allo scandalo e al populismo ecologico. Quando lo fa, però, “schiaccia” il problema del greenwashing, deformandolo e facendolo ricadere in uno schema bipolare in cui da una parte ci sono le aziende virtuose che praticano, fanno vivere, la sostenibilità e dall’altra i malintenzionati che mentono sapendo di mentire. Questa prospettiva banalizza, e in una certa misura sminuisce, il problema. Il greenwashing, da oceano di complessità che racchiude situazioni diversissime fra loro, diventa profondo come una pozzanghera.

Tra il bianco e il nero c’è tutta una gamma di grigi

Il problema di questo tipo di comunicazione è il suo manicheismo. Ma fra il bianco e il nero si trova tutta una scala di grigi che non dovrebbe essere ignorata. Molte aziende che ricadono sotto l’accusa di greenwashing non adottano questa pratica per consapevole strategia e scientifica omissione ma perché non hanno gli strumenti, culturali e operativi, per “governare” il cambiamento di pelle verso la sostenibilità. Questo capita soprattutto alle piccole e medie imprese, che per svariati motivi (cultura aziendale, ridotte dimensioni, limitazione dei costi, ecc.) non si sono ancora dotate degli “attrezzi” per costruire un percorso sostenibile. Diventare sostenibili – nella governance e dal punto di vista economico, sociale e ambientale – è una strada graduale, fatta di tappe di consapevolezza, scoperta ed errori. Non si diventa sostenibili dal giorno alla notte e soprattutto si fa molta fatica a diventarlo se non si è supportati da professionisti del settore. Perché la sostenibilità è una materia complessa e dalla sua complessità ricava il suo valore.

Dell’importanza di diffondere la cultura della sostenibilità, con una piccola postilla sulla “sindrome dell’esperto”

Qui arriviamo a uno snodo centrale. Chi dovrebbe diffondere la cultura della sostenibilità, che in alcuni settori, come quello delle PMI, non è ancora penetrata del tutto? A chi spetta il compito di sensibilizzare e disseminare consapevolezza? Ai comunicatori esperti di sostenibilità che devono innanzitutto essere dei facilitatori. Contribuire al rafforzamento della cultura della sostenibilità, in un’opera quasi di proselitismo, dovrebbe essere una delle mission di chi fa il mio mestiere.

Con una piccola nota di attenzione: evitare la “sindrome dell’esperto”, un fastidioso tic di alcuni professionisti, intellettuali, specialisti che si manifesta nella forma di risposte secche e infastidite, umiliazioni gratuite e sarcasmo corrosivo di fronte alle (legittime) domande di persone inesperte in una materia. Ecco, questo è un atteggiamento sicuramente da evitare. Per quanto un quesito possa giungerci come strampalato, non è con il disprezzo che convinceremo il nostro interlocutore a prendere la strada della sostenibilità. Ascolto, chiarezza e, soprattutto, altre domande sono strumenti molto più efficaci.

Sergio Vazzoler

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