Jo Confino

I brand: una forza per bene oppure la spina dorsale di un sistema che agisce contro gli interessi di una società più sostenibile?
La domanda è stata rivolta nella settimana in cui oltre 2000 esperti si sono riuniti a San Diego per la Sustainable Brands conference.
Sappiamo tutti quanto potere hanno i brand, nella nostra società globalizzata e commerciale, nell’orientare le aspettative e i desideri di miliardi di clienti; e vediamo anche come i valori occidentali stanno deformando le nazioni emergenti, alimentando la stessa ossessione distruttiva per il possesso degli oggetti materiali.
Ma i brand hanno forse la capacità di aiutarci ad uscire da questa strada senza sbocchi, e, una volta dati per acquisiti i vincoli imposti dalle camicie di forza aziendali, occorrere domandarsi quanto spazio di manovra abbiano a disposizione.

Innanzitutto guardiamo quanta strada è già stata percorso verso la sostenibilità. E’ vero che molti grandi brand ora cominciano a capire i rischi per il proprio business che derivano da un mondo futuro traumatizzato dai cambiamenti climatici, dall’esaurimento delle risorse e dal crollo degli ecosistemi, per citare solo alcune delle sfide cui ci troviamo di fronte.
I brand più avanzati stanno quindi imparando a mitigare alcuni di questi effetti, sia tramite accordi di collaborazione pre-competitiva sia tramite iniziative per ridurre l’utilizzo dell’energia e delle materie prime.
Oltre a questo, alcune grandi corporation sono all’avanguardia, come ad esempio Unilever, dove ogni brand ha la responsabilità di incorporare la sostenibilità nel proprio core purpose.

Un’altra nuova tendenza è rappresentata dall’uso della forza creativa del marketing per promuovere comportamenti più responsabili tra i clienti e non solo per vendere i prodotti.
Vi sono numerosi esempi, da Levi’s che chiede ai clienti di lavare i jeans meno spesso a Nike che premia chi si addestra meglio nelle attività sportive, ai corsi organizzati da L’Oreal e UNESCO per insegnare a 1,5 milioni di parrucchieri come parlare di sesso sicuro con i propri clienti.
Ma nel complesso l’impatto di tutte queste iniziative non è sufficientemente significativo, anche se occorre riconoscere che in questo modo i brand sviluppano le conoscenze e la consapevolezza per fare passi più decisivi in futuro.

Come abbiamo visto nel caso della tragedia della fabbrica in Bangladesh, i grandi brand – quando si trovano schiacciati contro il muro – sono in grado di unirsi molto rapidamente e stabilire nuove regole operative.
Eppure queste azioni progressive neppure iniziano a prendere in considerazione il tema del consumo sostenibile. La ragione è che i brand owner rimangono attaccati al cordone ombelicale del breve termine, sostenendo in modo non convincente che possono continuare a crescere solo se lo separano dall’utilizzo delle risorse. Altro campo ignorato dai grandi brand è poi quello dell’attivismo politico, dove per altro essi potrebbero fare un’enorme differenza.

L’impegno politico è forse la soluzione?

Le imprese sanno molto bene che i propri brand, costruiti in molti casi nel corso di decenni, possono essere danneggiati da un giorno all’altro da un movimento popolare ben mirato e oggi alimentato dai social media. Quello che invece non hanno capito è che potrebbero esse stesse sfruttare il coinvolgimento politico per promuovere il cambiamento.

In privato, i brand si lamentano del fatto che i politici non creano condizioni di progresso, ma troppo spesso non premono pubblicamente per azioni in tale senso – mentre continuano ad aderire a potenti associazioni di categoria che, a porte chiuse, sfruttano il proprio potere lobbistico per mantenere lo status quo.

Ogni tanto, si riuniscono gruppi di CEO per sottoscrivere lettere al governo: un buon esempio recente è la Climate Declaration firmata da oltre 30 grandi corporation Usa, che chiede ai policymaker federali di agire contro il riscaldamento globale.

Purtroppo raramente tali avvenimenti pubblici hanno seguito, non sono sostenuti da grandi risorse e lasciano indifferenti i clienti.

Oltre a ciò, l’enfasi dato dai brand al cambiamento comportamentale – perché i clienti usino i prodotti in modo più responsabile – impedisce alla gente di comprendere il proprio ruolo in qualità di cittadini.

La costante reiterazione che il mondo si può salvare grazie a azioni piccole, come l’acquisto di prodotti più sostenibili o l’abbassamento del termostato, non fa che rafforzare il distacco dal processo politico.

Non ci vorrebbe molto perché i brand utilizzassero gli skill impiegati per promuovere il cambiamento comportamentale anche per promuovere l’azione politica. Molte imprese lo fanno già in modo molto diluito, sostenendo il volontariato e il riciclo dei rifiuti, e negli Usa molte corporation hanno incoraggiato gli elettori ad andare a votare alle ultime elezioni politiche.

L’unione fa la forza

Certo con questo assunto non si intende che ogni CEO debba diventare un attivista stile Anita Roddick, semmai si vuol dire che i brand più “progressisti” dovrebbero unirsi, preferibilmente assieme ad un colosso dei social media come Facebook o Google, per identificare aree specifiche dove collaborare con i propri clienti per chiedere il cambiamento. La protezione della biodiversità è, ad esempio, un’area che potrebbe offrire spazi per un’attività creativa congiunta tra il business e i clienti.

Evidentemente le imprese diffidano di un impegno politico pubblico, temendo possibili contraccolpi. Ma in un momento di forte crisi, è necessario sostenere la creazione di alleanze insolite.  Assumendo una posizione aperta e trasparente sui temi verso i quali vorrebbero maggiore dibattito,  le imprese potrebbero addirittura generare maggiore fiducia, quanto mai utile in fasi come questa.

Per questo, nuovi skill andrebbero sviluppati dalle imprese. Allo stesso modo in cui le ONG hanno imparato a collaborare con le imprese su diversi temi (dalla gestione della filiera all’eliminazione delle sostanze chimiche nocive), è forse arrivato il momento per le imprese di collaborare con gruppi della società per sviluppare l’arte dell’attivismo politico.

Il mondo dell’imprenditoria vede molte regioni sconvolte da difficoltà economiche o da settarismi. Le recenti proteste in Svezia indicano che ormai la stabilità non è una certezza in alcun paese.

Si comincia a capire anche che l’impatto del cambiamento climatico sulla disponibilità del cibo, dell’acqua e dell’energia sarà il motore di nuovi conflitti sociali e politici.

Sarebbe opportuno che i brand iniziassero a comunicare in modo nuovo e dinamico con i loro clienti, piuttosto che stare a guardare mentre il business viene portato via da uno tsunami di proteste e scontri.

http://www.guardian.co.uk/sustainable-business/brands-unlock-power-citizens-change