di Christine Bader*

Con il numero dei morti nel crollo della fabbrica Rana Plaza in Bangladesh che ormai supera 700, al momento in cui scrivo (il numero di morti ha nel frattempo superato i mille, 176 i dispersi, ndr), è arrivato il momento di chiedersi quali sono i progressi ottenuti dalla responsabilità sociale di impresa (CSR), se ce ne sono…

A partire dagli anni ‘90, quando il mondo è venuto a sapere delle fabbriche della miseria che fornivano Nike e Kathie Lee Gifford, le grandi imprese hanno speso miliardi di dollari per creare apposite unità CSR ed effettuare audit sociali. Ma allora, perché la gente continua a morire?

In parte il problema deriva dal fatto che alcune imprese credono che fare CSR significhi mandare i dipendenti, magari vestiti con t-shirt coordinate, a dare una mano di bianco a una parete oppure staccare un assegno a qualche museo. Sono iniziative belle, ma non salvano le vite.

La CSR vuole dire che un’impresa è responsabile dei propri impatti sugli individui e sulle comunità. Si tratta di una battaglia continua per prevenire la prossime Rana, Tazreen o Deepwater Horizon, portata avanti giorno dopo giorno da un esercito invisibile di persone all’interno delle multinazionali. Qualche volta ci riescono. Ma come per qualsiasi giocatore di difesa – il portiere, un’agenzia di contro-terrorismo – quelli che vengono contati sul tabellone non sono i gol che salvano, ma quelli che non si riescono a bloccare.

Nel corso degli anni ho conosciuto molti di questi “portieri aziendali” (anch’io lo sono stata). Lavorano tanto, creano alleanze, vedono il quadro complessivo e prendono molto sul serio il proprio lavoro (oltre che se stessi). Stanno facendo progressi, ma sarebbero i primi a dire che tali progressi non bastano e che non sono sufficientemente rapidi.

Perchè non stanno vincendo?

  • Il tema non interessa ai consumatori. I clienti dicono che sono disposti a pagare di più per i prodotti fabbricati in modo etico, ma non lo fanno. Quindi tocca ai brand e ai produttori pagare salari decenti e misure di sicurezza adeguate. Le imprese illuminate sanno che potranno recuperare tali costi con una maggiore fidelizzazione dei propri dipendenti e con la continuità del business. Ma i costi immediati possono essere fonte di preoccupazione.
  • È un tema controverso. La legislazione fiscale in Bangladesh, pensata per stimolare lo sviluppo economico in un Paese che ne ha disperatamente bisogno, offre incentivi per la costruzione di fabbriche letteralmente una sopra l’altra, persino in edifici residenziali autorizzati solo per un numero minore di piani, con l’esclusione di macchinari pesanti.
  • I peggiori nemici si trovano nell’ufficio accanto. Le unità CSR delle imprese di abbigliamento mi raccontano come dedicano mesi e mesi di lavoro a stretto contatto con i direttori di produzione per mettere sotto controllo gli orari di lavoro, e poi, due mesi prima di Natale, i colleghi degli acquisti decidono che le maglie devono avere tre bottoni, anziché due, costringendo i fornitori a lavorare 24 ore al giorno…
  • La gente mente. I proprietari delle fabbriche poco scrupolosi falsificano i documenti, e gli ispettori statali (se ce ne sono) si lasciano corrompere affinché chiudano un occhio alle violazioni. Tanti responsabili CSR mi raccontano, dopo un giro in una fabbrica, che tornano indietro facendo finta di aver dimenticato qualcosa, e vedono i lavoratori senza gli indumenti protettivi, indossati apposta per la visita.
  • Nessuno viene premiato per la prevenzione. Un responsabile della logistica mi ha raccontato che l’anno scorso la sua azienda ha assegnato uno dei più prestigiosi premi interni a una donna che ha gestito bene una allarmante crisi sulla sicurezza. “Vedi – mi ha detto – e quelli di noi che hanno fatto in modo che non si verificasse alcun disastro?” Gli incentivi “perversi” sono numerosi.

 

Cosa serve agli specialisti Csr per il successo?

  • La facoltà di terminare un rapporto. Chiudere una fabbrica non è sempre la risposta giusta: i lavoratori disoccupati possono trovarsi costretti a forme ancora peggiori di sfruttamento, come la prostituzione. La decisione di Disney di ritirarsi dal Bangladesh in modo graduale è stata implementata bene, anche se alcuni esperti di diritti del lavoro avrebbero preferiti che rimanesse. Ma nel caso di grosse inadempienze, il responsabile CSR deve poter terminare i rapporti con un fornitore, anche se ciò comporta ritardi per la produzione.
  • Un posto tra i grandi. Non è ammissibile che lo staff CSR venga relegato alla “sala giochi”, mentre le decisioni importanti vengono prese nella sala del CdA. I diritti umani devono essere compresi tra i criteri sui quali si basano le decisioni e si allocano le risorse, tra cui la scelta dei fornitori e il rinnovo dei contratti.
  • Media “sentinelle”. I responsabili CSR in numerosi settori mi hanno detto che grazie all’inchiesta pubblicata dal New York Times sulle condizioni lavorative nella fabbrica Apple-iPad Foxconn in Cina, sono riusciti ad ottenere l’attenzione e il sostegno che avevano sempre cercato dai propri CEO. Nessuno vuole essere il prossimo nome nei titoli.
  • Il sostegno dei governi, degli investitori e dei consumatori. Una partecipazione intelligente e coerente dei governi, investitori che premiano la trasparenza aziendale nelle sfide relative alla catena di fornitura, consumatori disposti non solo a parlare ma anche a pagare: le imprese non sono in grado di risolvere questi problemi da sole.

 

Le tragedie nel Bangladesh confermano che la CSR è più importante che mai. Ma non ci servono altre t-shirt coordinate, ci serve una CSR reale e migliore. Le persone che, nelle imprese, promuovono pratiche più sicure e più responsabili devono dire quali sono le ragioni degli insuccessi e quello che serve per riuscire. Si tratta di vita e di morte.

* Docente di “Business e Diritti Umani” alla Columbia University, oggi Advisor per BSR, ha lavorato in BP dal 1999 al 2008. Autrice di Girl Meets Oil: The Evolution of a Corporate Idealist, prossimo alla pubblicazione da Bibliomotion (2014).

Fonte: The Guardian