Imprese, agenzie e CSR, occhio alle “supercazzole”!

Nov 27, 2017

Osservatorio Permanente sul Cambiamento della Comunicazione e UNICOM presentano i dati della ricerca sullo stato della comunicazione sociale delle imprese: un quadro tutt’altro che incoraggiante per addetti ai lavori e cittadinanza attiva.
Sembra che i cittadini (e le agenzie di comunicazione) si sentano un po’ come il vigile sbeffeggiato dal conte Mascetti di “Amici Miei”: interdetti e con la vaga sensazione di essere stati fregati.
I dati che confermano questa sensazione sono emersi giovedì 23 novembre nel corso della ricerca condotta da UNICOM e OPCC e presentata al Circolo del Design di Torino.
Federico Rossi, vice presidente di UNICOM, nella sua introduzione, “Dalle pennellate di verde alle radici della sostenibilità” ha ben precisato i confini della sostenibilità per le imprese.
Una veloce disanima sugli ultimi indicatori di settore, sugli standard di rendicontazione GRI4 e Iso 14040, sul senso di fare sostenibilità non come mera beneficenza, ma come investimento sullo sviluppo, ed ecco che il quadretto idilliaco si è rotto.
Va detto che Fabrizio Masia, direttore generale di EMG Acqua (oltre che sondaggista preferito di Enrico Mentana), ha premesso fin dall’inizio che avrebbe rotto le uova nel paniere tirando pennellate di grigio, ma ai freddi numeri non si scappa.

POCHI E MALCONTATI
E i numeri dicono che solo il 12,4% degli italiani sappia cosa sia la responsabilità sociale d’impresa. E che la metà delle persone che ha almeno una vaga idea del concetto, si sia formata un’opinione al riguardo tramite la TV (telegiornali e talk show). Meglio vanno le agenzie (il sondaggio di Masia ne ha consultate 20) in cui l’87% ha contezza del tema. Il sondaggio, dunque, sottolinea l’esistenza di uno scollamento profondo fra cittadini e chi, come noi, comunica la sostenibilità delle imprese. E, lo sapevamo, la strada da compiere è davvero molta se poco più di 12 persone su 100 dichiarano di sapere che le imprese sono impegnate su altri terreni che non riguardano la semplice distribuzione dei dividendi.
Alla domanda “ritiene che le imprese siano sostenibili? solo il 17% degli italiani ha risposto di sì. Ma ancora più sorprendente è il dato di risposta delle agenzie: appena il 47% ha risposto affermativamente alla domanda.
Il dato, oltre a fotografare plasticamente una distanza fra intenzioni dei clienti e percezione delle agenzie, mette in luce un generale senso di sfiducia (e di mancanza di professioni specifiche nella comunicazione a supporto delle imprese).

ETICHETTE PARLANTI? PROPRIO NO
Un altro dato che la dice lunga sull’efficacia delle strategie di comunicazione è quello che emerge dall’analisi delle etichette che comunicano la sostenibilità dei prodotti (FSC, riciclabilità, EcoLabel etc etc): appena il 32% degli italiani intervistati le ha notate sulle scatole dei prodotti, e di questi appena la metà (16%) le ritiene comprensibili e chiare.
Del campione di italiani attenti alla sostenibilità e che fanno guidare le loro scelte di acquisto dalla presenza o meno delle famose etichette, il 52% afferma che è disposto a spendere di più per avere un prodotto più sostenibile. Attenzione: di più, ma non molto di più. In caso di drastico aumento del prezzo, la percentuale di consumer etici cala al 18%: a parità di prezzo interviene il fattore qualità. Se un brand ha una reputazione di qualità superiore, allora la sostenibilità passa in secondo piano. E qui si aprirebbe un altro tema degno di riflessione: la relazione tra qualità e sostenibilità.

LA SOSTENIBILITÀ? NON È ROBA DA SOCIAL…
Giuseppe Tipaldo, sociologo del Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino, afferma che, sì, la sostenibilità è ancora una supercazzola (cit.).
L’analisi quanti/qualitativa dell’azione dei principali brand italiani su Facebook dal 2012 ad oggi (FCA, Esselunga, LIdl, Tim, Vodafone, Total Erg e altre) consegna un quadro impietoso: su oltre 22mila post appena un centinaio è centrato sul tema della responsabilità sociale d’impresa.
Anche qui sono possibili due valutazioni: o Facebook & Co. non rappresentano il luogo adatto per questo genere di comunicazioni, o alle imprese interessa davvero poco comunicare ciò che fanno per ambiente, persone e comunità.
Il dato di engagement vede sul podio Lidl: i “like” sono però appena un migliaio sul dato complessivo dei post a tema CSR.
Insomma, le aziende sembrano non comunicare la propria sostenibilità o lo fanno con i mezzi sbagliati. Perché se è pur vero che tutti i grandi brand citati poco sopra si sono dotati di bilanci sociali e report di sostenibilità, e li hanno pubblicati sui propri siti, è altrettanto vero che tali strumenti non sono efficaci nel comunicare con un pubblico non specializzato. Ecco che quindi emerge anche il tema della qualità dell’informazione ambientale e a sfondo sociale: deve essere chiara, concisa, destinata a una platea ampia e non specializzata, ingaggiante e, perché no?, capace di emozionare (l’analisi sull’engagement ha rilevato una percentuale non trascurabile di reazioni emotive – cuori, sigh ed emoticon vari – fra i like in calce ai post).

SE NON ORA QUANDO?
Il quadro che emerge ci conferma come il mainstream sulla sostenibilità stia, sì, crescendo, ma senza riuscire a diventare cultura diffusa nel Paese. E ci ribadisce con forza come i problemi che ne frenano lo sviluppo siano tanto nella domanda di sostenibilità da parte dei cittadini-utenti – che si dibattono tra istanze di benessere e mancanza di strumenti di valutazione e confronto – quanto nell’offerta da parte di imprese e agenzie di comunicazione, tra mode da cavalcare e l’irresistibile fascino delle scorciatoie di immagine.
Ma per costruire una cultura della sostenibilità, lo sappiamo, il primo passo è la definizione di un linguaggio comune: se non ora quando?