L’economia circolare, ormai legge per l’Unione Europea, si fonda sul riutilizzo dei beni e dei rifiuti e concede loro una seconda vita come materie prime di un nuovo ciclo produttivo. In un’ottica di recupero e riciclo, i primi attori chiamati in causa in questa catena di riutilizzo sono proprio le aziende che si occupano di raccolta e riciclaggio dei rifiuti, la cui reputazione “green” è spesso poco conosciuta, sottostimata o apertamente criticata. È quanto emerge da una ricerca condotta da un team delle Università di Macerata e Ancona, che cerca di rispondere a un quesito complesso: come viene seguita e percepita da media e social media l’attività delle aziende che curano la gestione dei rifiuti, e quali ripercussioni provoca una loro cattiva reputazione sullo sviluppo delle attività di green economy? Il tema sarà oggetto del volume “Verso l’economia circolare”, edito dall’università di Macerata ed i cui contenuti sono stati per sommi capi enunciati all’ultima edizione di Ecomondo durante l’evento Economia circolare e reputazione (sociale). Gli estensori della studio, i ricercatori Federica Simonetti, Ksenia Silchenko e Fabio Fraticelli partono dall’assunto che l’economia circolare sia una componente fondamentale degli sforzi messi in campo dall’Unione europea per sviluppare un’economia realmente sostenibile e competitiva: «L’obiettivo non è solo minimizzare il flusso dei materiali “dalla culla alla tomba”, ma disegnare un metabolismo industriale ciclico, “dalla culla alla culla”, capace di portare la materia di scarto ad una nuova culla, di consentire ai materiali di mantenere il loro status di risorse», insomma di mantenere ad un livello più elevato possibile la qualità delle risorse – al netto dell’ineluttabile avanzare del loro degrado – nel tempo. In quest’ottica le industrie che operano nella gestione dei rifiuti diventano un asse centrale, sebbene tutt’altro che unico, all’interno dell’economia circolare. Eppure, quasi paradossalmente, le aziende del comparto dei rifiuti – che pure generano non poco valore economico, sociale e ambientale – raramente vengono percepite come tali. La ricerca, prendendo il caso empirico della Orim Spa, azienda maceratese associata a Fise Assoambiente, attiva dal 1982 nel campo del trattamento, smaltimento e recupero di rifiuti speciali pericolosi, osserva che è proprio a causa della scarsa reputazione di cui gode l’economia circolare (causata da una scarsa conoscenza dei suoi processi) che le attività imprenditoriali legate ad essa rischiano di scontare ritardi e freno al loro sviluppo. Come già mostrato dal sondaggio di Legambiente e Lorien Consulting la sensibilità ambientale degli italiani si attesta su alti livelli: è infatti vero che il 62{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} di loro si informa accuratamente sulle prassi della raccolta differenziata, ma appena il 37{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} sa che il rifiuto differenziato va trattato industrialmente per essere riciclato in altri oggetti, mentre il 25{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} addirittura vorrebbe modificarlo e riutilizzarlo senza intraprendere processi industriali. Non può esserci riciclo senza industria (attività che comporta a sua volta la produzione di altri rifiuti ed altri scarti) ma è proprio la mancanza di questa consapevolezza che frena lo sviluppo delle attività legate all’economia circolare. Le aziende come la Orim da un lato godono di una buona reputazione presso i propri stakeholder diretti (clienti e fornitori) ma scontano al contempo le critiche di un pubblico non professionale e non specializzato, spesso all’oscuro di processi industriali e prassi positive adottate, che sfoga con la comunicazione non filtrata dei social media un mix di «ansia, rabbia e tristezza». Social media che consentono «a qualsiasi individuo di portare a conoscenza degli altri le proprie opinioni e le versioni dei fatti in aggiunta o addirittura in alternativa alle dichiarazioni ufficiali di attori istituzionali». La ricerca fornisce una diagnosi dettagliata del problema reputazionale delle aziende del comparto rifiuti, ma sottolinea anche la difficoltà di elaborare una cura che tenga conto del corto circuito comunicativo rappresentato dai nuovi media. Alcuni ingredienti della cura da elaborare sono però tuttora evidenti, e vedono in cima alla lista elementi come una rinnovata azione di corporate social responsibility da parte delle aziende che vada oltre il calcolo economico e l’instaurazione di un circolo (virtuoso questa volta) di comunicazione che informi davvero i cittadini dei processi industriali necessari per attivare efficaci processi di economia circolare. «La realizzazione di un modello efficiente di circular economy – commenta il direttore di Fise Assoambiente Elisabetta Perrotta – passa anche e soprattutto da una corretta ed efficace comunicazione e informazione sulle attività di gestione dei rifiuti, in grado di intercettare e coinvolgere le comunità locali e l’opinione pubblica nazionale. È lo scenario per cui Associazioni di categoria e imprese del settore si stanno attrezzando, passando da una comunicazione diretta ‘verso’ il cittadino/utente a una ‘con’ il cittadino/utente che integri gli strumenti di comunicazione verso i media tradizionali con un dialogo costante attraverso i social media, con l’obiettivo di comprendere i bisogni della cittadinanza, coinvolgerla e sensibilizzarla sulle tematiche relative ai servizi ambientali». Buone prassi di economia circolare avvengono già in molte realtà cittadine. Un impegno costante da parte dei cittadini nella raccolta differenziata ed una rinnovata conoscenza dei processi che a valle della separazione dei rifiuti portano nuova vita agli oggetti, sono processi imprescindibili. Una buona comunicazione dalle aziende verso i cittadini ed uno spazio di comunicazione comune, sono gli ingredienti che possono rendere ancora più efficace il processo. Fonte: greenreport.it    ]]>