Ridurre la plastica quando si va a fare la spesa dovrebbe essere facile, ma allora perché è così difficile?

Stephanie Convery Qualche mese fa, con il mio compagno sono andata a fare dello snorkeling in Indonesia. Tuffandoci da minuscole isole deserte, abbiamo fatto immersioni con mante giganti, ma il ricordo più vivo che ho di quelle giornate non riguarda il corallo magnifico o gli strani pesci colorati, ma il volume incredibile di rifiuti nell’acqua. Borse per la spesa, bicchieri di plastica, tubi di dentifricio, buccia d’arancia, detriti umani di ogni tipo seguivano le correnti: ondata su ondata di rifiuti che si accumulavano nelle acque basse. In queste zone della barriera corallina, l’acqua era torbida e talmente piena di detriti microscopici che ti bruciava la pelle. Mi ricordo una tartaruga marina che nuotava maestosamente nell’oscurità mentre la mia testa veniva urtata da una bottiglia di Coca Cola che galleggiava sulla superficie dell’acqua. L’esperienza mi ha lasciato una sensazione di vertigine nauseante. Per questo motivo, quando il mio redattore mi parlò dell’iniziativa plastic-free July, mi sono offerta per fare una prova preliminare: volevo vedere se era davvero possibile vivere senza la plastica. Come prima mossa, ispezionai casa mia per identificare i punti problematici. I risultati erano sconsolanti: sacchetti per l’ immondizia, borse per la spesa, tazzine del caffè, pellicola alimentare, dispenser di sapone, bottiglie spray, articoli per la pulizia. E si trattava solo della cucina. Nel bagno, c’erano flaconi di shampoo, deodoranti, spazzolini, rasoi usa e getta. Mi tornò il senso di vertigini, mi sembrava di annegare tra i rifiuti. L’ostacolo più grosso e più evidente era rappresentato dai prodotti alimentari, i quali generano tantissimi rifiuti: il recente divieto sulle borse di plastica nei supermercati ha messo in rilievo la questione del trasporto a casa della spesa, ma la plastica interviene anche prima e dopo il tragitto negozio-casa. Borse, vasetti, imballaggi, bottiglie: sugli scaffali dei supermercati, quasi tutto è avvolto nella plastica. Nonostante le migliori intenzioni, evitarla è praticamente impossibile. La mia prima escursione al supermercato locale me lo ha sottolineato con forza. Arrivai – per una volta piena di entusiasmo all’idea di fare la spesa – con una serie di borse di cotone e tela raccolte negli anni. Ripensai alla tartaruga e rinnovai la determinazione a vincere la sfida di tornare a casa senza plastica. L’elenco della spesa era modesto: riso, concentrato di pomodoro, avena, latte detergente per il viso, carta igienica, latte di riso e yogurt al cocco senza lattosio. Facile, pensai. Sbagliai. I problemi si presentarono subito. L’unico riso non confezionato nella plastica era un pacco da 10 kg. Non avevo alcuna intenzione di tornare a casa a piedi – una passeggiata da 6 isolati – carica di 10 kg di riso. Decisi allora di comprare del couscous al posto del riso, perché era confezionato in una scatola. Problema non del tutto risolto, ma mi sono dovuta accontentare. Il concentrato di pomodoro si presentava per lo più in confezioni o flaconi di plastica, ma c’erano anche dei piccoli barattoli in alluminio, al costo di 70 centesimi cadauno. Non male. Poi andai alla ricerca dell’avena. Un kilo di fiocchi d’avena della marca proprietaria costava $1,30 ma era confezionato in sacchetti di plastica. C’era una sola marca di fiocchi d’avena non avvolti nella plastica bensì in un cartoccio e stavo per prenderli fino a quando non vidi il prezzo. $5 per un kilo di normali noiosi fiocchi d’avena! Avevano dei poteri magici? (Mi resi conto dopo che il cartoccio ha una funzione semplicemente decorativa; i fiocchi d’avena si trovano in un sacchetto di plastica all’interno del cartoccio.) Le cose non andarono meglio con il latte di riso o con il latte detergente per il viso, anche se trovai una saponetta in una scatoletta di cartone. Per quanto riguardava la carta igienica, nessuna marca non era avvolta nella plastica, incluse quelle che si vantavano di imballaggi riciclati al 1000%. Quando arrivai agli yogurt, ero proprio giù di corda. Per riuscire nell’intento di vivere un mese senza la plastica, avrei dovuto darmi da fare. Decisi di affrontare la questione dei prodotti per il corpo e per la pulizia senza risparmiare soldi. Sostituii il mio flacone in plastica di shampoo con dello shampoo solido, venduto in una scatoletta di cartone. Feci la stessa cosa con i saponi liquidi. Comprai un rasoio e lamette in acciaio inox e abbandonai i rasoi usa e getta. Ma il dentifricio al bicarbonato non mi convinse, e neppure il deodorante “naturale” (ci vuole uno stile di vita molto meno stressante e a intensità cardiaca meno alta). Viaggio parecchio, quindi dal rivenditore etico online Biome acquistai una serie di flaconcini, vasetti e contenitori in vetro e acciaio sufficientemente piccoli da stare nel beauty. Li riempii di crema idratante, struccante e burrocacao dalle provviste che avevo già a casa, evitando di dover viaggiare con articoli voluminosi o di comprare dei duplicati, o di cedere alla tentazione di aprire i flaconcini di shampoo e balsamo offerti dagli alberghi. Mentre riempivo di balsamo uno dei miei flaconcini, mi venne in mente un albergo indonesiano che aveva un dispensatore di shampoo montato sulla parete della doccia, e mi chiesi perché altri posti non seguivano tale esempio. Eppure quando poi sono partita per un viaggio – al festival Dark Mofo in Tasmania – non ho fatto bene le valigie. Quando il personale di bordo dell’aereo arrivò con il carrello degli snack, mi trovai in un’altra situazione impossibile. Tutto, dalle tazzine del caffè ai pacchetti individuali di formaggio e cracker, era avvolto nella plastica. E come avrei potuto passare quattro giorni a un festival senza la plastica usa e getta? Troppo tardi, mi resi conto della praticità di un piccolo kit che la mamma teneva nella borsetta: una tazzina riutilizzabile, un fazzoletto pulito e una borsa per la spesa fatta in tessuto da paracadute, che diventava piccola come una scatoletta di fiammiferi quando la si piegava. Mi feci una nota mentale degli articoli che ci avrei aggiunto, un contenitore in Tupperware e delle posate. Quando rientrai a Sydney, decisi di verificare come acquistare i prodotti alimentari secchi – riso, fiocchi d’avena, frutta secca – evitando gli imballaggi di plastica. I punti di vendita all’ingrosso parevano l’unica soluzione. Forniti di grandi fustoni di farina, frutta secca, cereali, e così via, si rifanno a un tipo di negozio alimentare vecchio stile, dove il cliente riempie i propri contenitori – o sacchetti di carta – con quello che serve, che viene poi comprato a peso. Sembrava un paradiso libero dalla plastica. I punti all’ingrosso più vicini a casa mia distavano a cinque fermate di treno. Va bene, pensai, non si può fare tutti i giorni, ma una volta ogni tanto sarà fattibile, no? Poi controllai i prezzi. Mi sembravano alti, quindi feci il punto con il mio prodotto alimentare ormai di riferimento: i fiocchi d’avena. Erano biologici, e costavano $8 al kilo. Mi sarei messa a piangere.

Cosa ho imparato

Ho ottenuto qualche risultato positivo. Ho dovuto investire qualche soldo, ma continuo ad usare gli oggetti che ho comprato all’inizio dell’ esperimento. Comprai della pellicola in cera d’api riutilizzabile, e non uso più la pellicola alimentare in plastica. Dal verduriere, presi l’abitudine di mettere la frutta e la verdura nella mia borsa alla rinfusa e di aiutare la cassiera a dividere le pere dalle mele prima di pesarle. Smisi di usare i sacchetti per l’immondizia e raccolsi i sacchetti di carta e i vecchi giornali per avvolgere i rifiuti particolarmente inzaccherati o per rivestire il cestino delle immondizie. Anche se qualche volta non era neanche necessario – qualche mese prima avevo creato una piccola vermicultura (sì, anche in un appartamento è possibile) e poiché i vermi mangiano quasi tutti i rifiuti alimentari, e anche la carta e il cartone, una riduzione anche solo modesta del consumo della plastica portò a una situazione dove svuotare il bidone dei rifiuti era più una questione di abitudine che di necessità. Ma le opzioni senza plastica nei supermercati sono così poche che decidere di evitarla significa spesso sacrificare altri valori – come non acquistare prodotti con olio di palma da fonti non sostenibili o acquistare gli articoli a kilometro zero – oppure sforare alla grande il bilancio casalingo. Se poi ci sono dei vincoli dietetici, lo shopping diventa un’esperienza quasi impossibile quando si vuole limitarsi agli alimentari da fonti etiche ed evitare la plastica. Infine, molta gente non ha un punto di vendita all’ingrosso sotto casa, oppure non può permettersene i prezzi.
Ed ecco il nocciolo della questione. Oggi, uno stile di vita biologico, senza la plastica, è una scelta possibile solo per chi dispone di un certo reddito e vive in determinate aree. Si tratta, in sostanza, di un mercato di nicchia. Il tempo, i soldi e l’accesso impediranno alla maggior parte delle persone di essere dei consumatori etici, per quanto lo possano volere.
Possiamo adottare dei cambiamenti importanti nelle nostre scelte di consumo, ma affidarsi ai meccanismi di mercato o scaricare l’onere della responsabilità sul consumatore, non risolverà il problema: la plastica è una questione politica. In altre parole, niente cambierà se non cominceremo a chiedere, a livello collettivo dalla base, riforme a tutti i livelli – da come si usa e si vende la plastica fino a come la si gestisce una volta consumata. Il tema richiede un approccio molto più grande del carrello della spesa, anche se il carrello della spesa può valere bene come punto di partenza. FONTE: The Guardian  ]]>